SUPERPUNTO
COME IL POTERE DEL LINGUAGGIO PLASMA LA REALTÀ E LE CONNESSIONI NEL MONDO FISICO E DIGITALE
L*OSMONAUTA #0004
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"Comunicare ci permette di comprenderci a vicenda e usare il linguaggio con attenzione aiuta a ridurre divari e distanze"
Interview :
SUPERPUNTO
UX content studio
Iniziamo con il presentarvi. Ci raccontate un pochino chi siete e cosa fate?
Valentina - Siamo Valentina ed Elena, siamo più sui 40 che sui 30, e insieme abbiamo fondato un piccolo studio di UX content a Milano che si chiama superpunto.
Io, Valentina, sono copywriter, ho iniziato questo lavoro subito dopo l’università. Inizialmente mi occupavo di pubblicità classica, e quindi linguaggio creativo per il digitale ma anche pubblicità offline. Negli ultimi cinque anni mi sono specializzata nella scrittura per la user experience, che nel concreto si traduce in: scrivere testi per siti web, per app, email, software. Elena, invece, viene da altre cose molto più interessanti!
Elena - Io ho studiato lingue orientali, cinese specialmente, e ho vissuto in Cina dove ho fatto tante cose diverse da quelle che faccio adesso. Mi sono spostata anche in altri paesi ma diciamo che ho sempre lavorato anche io con le parole, in maniera diversa. Mi sono occupata tanto di traduzione, per i sottotitoli di film, telefilm e gaming. Infine a Milano ho lavorato in un’agenzia in cui i contenuti erano nell’ambito digitale, qui ho scoperto che esiste una specializzazione così specifica come l’UX writing, e ho capito che era proprio quello che stavo cercando.
Valentina - Entrambe ci siamo specializzate nello UX writing per ragioni diverse. Elena per un interesse stilistico, mentre io per una motivazione più esistenziale.
Elena si trova a suo agio nel progettare e scrivere “microcopy”, cioè nel trovare le parole giuste ed essenziali, forse le viene naturale perché parla poco.
A me piace che questa scrittura sia utile oltre che bella: aiuta le persone a compiere azioni con prodotti digitali e se è pensata bene, evita dubbi, incomprensioni e mal di pancia.
Se pensiamo ad un prodotto o un’applicazione, la differenza rispetto ad un contenuto editoriale è che, in questi contesti, le parole non sono narrazione auto-riferita.
Nel mondo digitale, il prodotto deve portarti a compiere un’azione specifica. Secondo voi, quante persone percepiscono l’importanza di questo aspetto e comprendono la necessità di una specializzazione dietro ai testi? Come riuscite a far valere l’importanza della vostra responsabilità e competenza?
Valentina - Questa è “la domanda” per noi! È davvero una sfida, per due ragioni principalmente.
Da una parte la scrittura, spesso e volentieri, non viene percepita come una tecnologia, come qualcosa di altamente specializzato ma come qualcosa di innato, di naturale.
Tutti sanno scrivere, giusto? Fin da piccoli impariamo a farlo, e poi la scrittura ci accompagna in ogni momento: ogni giorno scriviamo sms o almeno un’email e poi dobbiamo scrivere per tesi e presentazioni.
E proprio perché è così comune, ci dimentichiamo che è una competenza a sé, come saper disegnare o programmare.
Poi c’è la questione delle dinamiche e delle politiche aziendali. Sono poche le aziende che sanno dare la giusta importanza al linguaggio, che è uno strumento potentissimo nonché il mezzo principale di accesso e di connessione tra le persone, e tra il brand e l’utente.
Quindi, tornando alla domanda: noi cerchiamo di far emergere il nostro valore in vari modi. Un modo molto efficace è insistere che il testo debba essere il punto di partenza dal quale si costruisce il resto. Quando questo accade, le aziende si rendono conto di quanto si vada a semplificare e velocizzare i passaggi successivi.
Saper parlare bene, usare le parole giuste, aiuta spesso a costruire un buon processo di pensiero, soprattutto all’inizio di un progetto, ancora prima di aver definito i tecnicismi del prodotto. Quando lavorate su un’applicazione o un prodotto, quanto è importante per voi essere coinvolti fin dall’inizio, nella fase di concept, per guidare il design del flusso? Quanto ritenete che questo possa migliorare il risultato finale?
Valentina - È fondamentale essere coinvolte fin dall’inizio, durante la fase di concept e design. Questo ci aiuta a comprendere meglio le idee di chi sta progettando il prodotto e per chi lo sta progettando.
Se arriviamo più tardi a bordo di un progetto diventa difficile proporre cambiamenti perché i giochi della UX sono già chiusi e noi crediamo che siano invece le parole a modellare la UX. Partecipare da subito vuol dire dimostrare il nostro valore e poter fare la vera differenza, ma anche essere capaci di “setacciare” un sacco di informazioni: ad esempio, partecipare già alle user interview, un momento intenso e che ci dà indicazioni utilissime sulle parole che usano le persone che interagiscono con il prodotto e come lo definiscono. Essere lì ci permette di fare domande e capire meglio perché gli utenti usano certi termini. Se invece non partecipiamo attivamente sin dall’inizio, possiamo solo ascoltare quello che è stato riportato ed elaborato, e avere informazioni di seconda, terza mano.
Vi è mai capitato che il team riuscisse ad adottare il vostro linguaggio, integrandolo anche nel loro quotidiano o nel modo di parlare del prodotto?
Valentina - Sarebbe davvero bello riuscire ad avere un lessico condiviso a livello di team: la comunicazione tra le persone scorrerebbe con termini precisi e si eviterebbero fraintendimenti. Un’azienda che fa questo molto bene è NeN. NeN nasce anche con una sfida linguistica: cambiare il linguaggio del settore dell’energia e creare un nuovo vocabolario. NeN crede talmente tanto a questo che le persone che lavorano per l’azienda usano internamente questo linguaggio chiaro, empatico, comprensibile e umano, anche nelle email tra loro e nelle risposte dell’assistenza clienti. Questo, secondo me, rafforza moltissimo il loro prodotto.
Perché in fondo noi umani abbiamo solo un unico vero vantaggio: il linguaggio articolato in parole. Comunicare ci permette di comprenderci a vicenda e usare il linguaggio con attenzione aiuta a ridurre divari e distanze. Certo, la mia è una visione un po’ idealizzata, ma sarebbe bello fissare un lessico e delle regole sul linguaggio su una scala più ridotta, ad esempio quando parte un progetto: questo aiuterebbe ad avere dei riferimenti chiari e fissi e favorirebbe la comprensione tra le persone che ci lavorano.
Dal vostro punto di vista, quanto la scuola oggi riconosce l’importanza della parola, non solo come materia da apprendere passivamente ma come strumento potente e dinamico che può essere utilizzato per compiere azioni concrete? Mi chiedo quanto venga valorizzato questo aspetto nel percorso educativo, considerando la centralità del linguaggio nella formazione.
Valentina - Imparare a scrivere è un obiettivo dei primi anni di scuola: tuttavia molte persone arrivano all’università senza un metodo e una tecnica per affrontare la scrittura di una tesi o l’argomentazione di temi complessi. Uso queste due parole con attenzione: metodo, ovvero la capacità di dare ordine alle idee. Tecnica, e quindi dare forma alle idee con un certo tono di voce e uno stile preciso.
Sarebbe importante ripartire dalle basi, rivedere la didattica e dare più spazio a come si formano i pensieri e come tradurli in parole.
Pensando alla varietà di prodotti che si rivolgono a target diversi, immagino che i vostri target tocchino un range di età piuttosto variegato, ognuno con repertori linguistici differenti. Voi come fate a restare “sul pezzo”, al passo con i tempi? Qual è il processo per mantenere aggiornato il vostro vocabolario e rimanere rilevanti in un contesto in continua evoluzione?
Valentina - Leggiamo libri, guardiamo film, ascoltiamo podcast e scegliamo sempre contenuti che non sono collegati al nostro lavoro. Preferiamo esplorare argomenti lontani dal nostro ambito, per evitare di cadere nelle solite immagini e nelle solite parole.
Per noi, restare sul pezzo significa proprio uscire dai confini del nostro settore. Siamo onnivore, curiose, ci piace spaziare in diversi campi. A volte troviamo connessioni inaspettate con il nostro lavoro, anche se in modo indiretto. Frequentiamo persone di età molto diverse. Notiamo differenze enormi nei modi di esprimersi e raccontare le cose, e questo ci aiuta a non restare ancorate a un unico stile, aprendoci a nuove prospettive.
Come organizzate il vostro processo creativo? Vi confrontate, discutete insieme e collaborate in ogni fase, oppure ciascuna di voi si occupa di una parte specifica e poi l’altra interviene successivamente per rielaborare?
Elena - Lavoriamo spesso insieme sui progetti, quindi è essenziale essere sempre allineate e consapevoli di cosa sta facendo l’altra.
In genere lavoriamo in modo collaborativo sull’architettura del pensiero, cioè la struttura di ciò che stiamo creando, e poi solo una tra noi due scrive mentre l’altra rilegge. Quando una di noi si allontana dal progetto, può valutarlo in modo più critico e distaccato, cosa difficile quando si lavora a lungo su un progetto. Essere in due ci aiuta moltissimo in questo.
Di recente abbiamo partecipato alla presentazione di un libro e l’autrice Silvia Pareschi spiegava quanto il suo lavoro iniziale sia solitario, ma che in seguito subentrano editori e revisori. Piacerebbe anche a noi avere questo tipo di supporto, a volte sarebbe bello avere ancora più occhi su quello che facciamo.
Quando presentate un progetto, capita che il cliente, proprio perché la parola è uno strumento accessibile a tutti, dia un feedback basato solo sul gusto personale senza tenere conto del pensiero e del processo che c’è dietro il progetto?
Elena - Sì, a volte succede, ma dipende dal tipo di progetto. Se si tratta di testi molto tecnici, è difficile esprimere un’opinione personale perché si segue un percorso preciso e l’opinione ha poco peso. Invece, con testi più legati a progetti corporate, dove c’è una componente personale, l’aspetto soggettivo può emergere di più. A volte i consigli che si ricevono sono molto pratici e specifici, come l’importanza di una parola rispetto ad altre. Altre volte, i feedback sono più generali, tipo “Questo messaggio non mi arriva”, e in questi casi bisogna indagare per capire se si tratta solo di gusto personale.
Ci raccontate un po’ come è nata l’idea del vostro podcast puntino? Qual'è stato il processo creativo? Come avete trovato l’ispirazione per i contenuti e gli argomenti che avete deciso di affrontare?
Valentina - Anche se le prime puntate sono andate online solo nell’ottobre 2023, l’idea è nata molto prima. Da anni abbiamo l’abitudine di collezionare, in una cartella dedicata, screenshot di testi che ci hanno colpito per le ragioni più svariate. Ogni tanto ci entravamo e buttavamo giù idee partendo dagli spunti raccolti, ragionando e discutendone tra di noi. Fino a quando abbiamo realizzato di volerci raccontare al mondo. Così abbiamo pensato che il podcast fosse il formato giusto per noi, anche perché ci piace molto come canale di comunicazione. Qualche anno fa avevo frequentato una scuola di podcast in cui avevo investito molta energia, pensavo addirittura che il mio futuro fosse in questo ambito.
Dall’unione di tutte le nostre idee è nato puntino. Il podcast ci permette di discutere, partendo da spunti concreti e pop, di aspetti della comunicazione comuni a tutti e di raccontare il nostro lavoro, quello che facciamo. L’obiettivo è sempre stato chiaro: realizzare un prodotto che funzioni per chi si occupa di design della comunicazione, digital marketing o scrittura, ma anche cercare di arrivare a un pubblico più ampio. Ho sempre pensato che se fossimo riuscite ad arrivare a mia zia, avremmo fatto bingo.
L’idea è proprio questa: rendere quello che facciamo, anche se di nicchia, un po’ più pop, attraverso racconti leggeri che possano far sorridere le persone, anche quelle che di UX non sanno nulla.
Quindi nonostante i dubbi iniziali su come poter raccontare il vostro lavoro e farvi conoscere, avete ricevuto dei riscontri positivi? Siete soddisfatte?
Valentina - Sì, ha funzionato. Nella prima fase siamo riuscite a raggiungere principalmente persone che lavorano nel nostro stesso settore, che era già uno dei nostri obiettivi principali. Da quel punto, si è creato un piccolo pubblico affezionato, anche se penso ci vorrà ancora del tempo per espandersi completamente. Tuttavia, ci sono già segnali positivi: per esempio, siamo state invitate a tenere un workshop al festival di Wired a Rovereto.
Ovviamente sarà un workshop generalista, perché parlare di email transazionali non avrebbe attirato molto pubblico, soprattutto di domenica pomeriggio. Quindi è necessario trovare un modo per ampliare il tema e non parlare solo di tecnicismi, per uscire dalla nostra cerchia. Il nostro obiettivo è proprio quello di andare oltre il nostro mondo e coinvolgere nuove persone. Sono molto curiosa di vedere come andrà.
Nel vostro lavoro emerge spesso il tema dell’inclusività, soprattutto nel contesto delle esperienze digitali, che di per sé possono essere più difficili da inquadrare rispetto a chi le vive. In questo senso, tali esperienze devono essere anche inclusive nel linguaggio e pronte ad accogliere una varietà di persone. Mi piacerebbe sapere come affrontate questa sfida e se potete raccontarci di un progetto in cui l’inclusività è stata particolarmente significativa per voi, per qualche ragione.
L’inclusività è sempre una priorità quando ci poniamo l’obiettivo di scrivere in modo chiaro.
Valentina - Molti associano il termine “inclusività” solo alla questione di genere, aspettandosi soluzioni come l’uso di asterischi o formule neutre. Tuttavia, l’inclusività va ben oltre la neutralità linguistica. Dobbiamo considerare le diverse tipologie di utenti che accedono ai nostri servizi, provenienti da contesti e demografie molto differenti. Ad esempio, nei servizi pubblici, ci troviamo di fronte a persone di età compresa tra i 30 e gli 80 anni, con vari livelli di istruzione.
Un esempio positivo di inclusività lo abbiamo visto collaborando con una scuola di yoga di Milano. In questo caso sono stati gli utenti stessi della scuola a chiedere maggiore inclusività, facendo notare termini o espressioni che non percepivano come inclusivi. La fondatrice della scuola, già molto sensibile a queste tematiche, ha capito di dover fare di più. Abbiamo così lavorato per creare un lessico chiaro e accessibile a tutti e la scuola ha capito che trasparenza e inclusività sono un impegno verso il proprio pubblico. Spesso si pensa che le realtà più piccole siano meno digitalizzate, ma in realtà sono quelle più aperte a sperimentare ed esplorare soluzioni che le grandi aziende, più strutturate, tendono a ignorare.
Un altro progetto interessante a cui abbiamo lavorato di recente è stato per Satispay, in collaborazione con Fightbean, uno studio di design e UX di Torino che ha coordinato tutto in modo eccellente. Siamo arrivate dopo una fase di restyling del brand e del tono di voce, ci siamo occupate della scrittura dei testi del sito per comunicare nuovi prodotti rivolti a diversi target. Inizialmente abbiamo proposto di usare alcuni termini in inglese, ma ci hanno subito chiesto di evitare gli inglesismi, già troppo presenti nel loro settore. Satispay voleva posizionarsi come un brand vicino alle persone, riducendo le distanze linguistiche e utilizzando termini familiari e non derivati dall’inglese. Questa scelta mi ha colpito molto. Ad esempio, invece di usare “smartphone”, hanno preferito “telefono”. È qualcosa di semplice ma significativo, che rende la comunicazione più accessibile.
Come immaginate il vostro futuro? Quali sono i vostri sogni, desideri e progetti per il domani?
Valentina - Sempre più ci rendiamo conto dell’importanza di offrire formazione. Stiamo pensando di organizzare incontri più piccoli e intimi, perché ciò che facciamo attrae poche persone, basta che siano quelle giuste. Sarebbe fantastico realizzare workshop anche per chi desidera fondare aziende, rendendoli consapevoli dell’importanza del linguaggio. Inoltre, ci piacerebbe esplorare contesti diversi, soprattutto in settori in cui la digitalizzazione è ancora in fase sperimentale.
Ci piacerebbe lavorare su progetti meno legati al mondo digital, come è stato per la scuola di yoga, dove è stato immediato vedere l’impatto del nostro lavoro. Tuttavia, dobbiamo trovare un equilibrio tra collaborare con clienti piccoli, dove la comunicazione è più diretta, e con clienti più strutturati. Una bella sfida sicuramente sarebbe quella di definire il giusto focus per i nostri workshop, considerando che il panorama è già molto saturo.
Prima di concludere, vorrei sapere se potete consigliarci alcune letture, autori o film che vi sono piaciuti. Quali sono le vostre raccomandazioni?
Valentina - Raccogliamo un archivio di ispirazioni, come i più grandi serial killer. Abbiamo anche una sezione dedicata nella nostra newsletter, dove annotiamo le cose che ci colpiscono o ci emozionano. Ci piace esplorare argomenti completamente diversi dal nostro mondo per trarne ispirazione.
Elena - In particolare, molte delle influenze musicali provengono da Vale. Anche le musiche di puntino sono sue.
Valentina - Il nostro podcast è nato da varie ispirazioni, come Mystery Show, un podcast del 2014 che risolveva misteri o Reply All, che racconta storie strane di internet. Per quanto riguarda i libri vi consigliamo assolutamente alcuni libri sui funghi, poiché sono creature affascinanti con un’intelligenza incredibile; comunicano con gli alberi e si scambiano nutrienti e informazioni, aiutandosi a vicenda. Uno dei nostri libri consigliati è L’ordine nascosto di Merlin Sheldrake, un micologo che esplora i funghi con uno stile coinvolgente e accessibile.
Elena - Credo sia bello vedere come concetti scientifici vengano narrati in modo amichevole e pop, e diventano interessanti anche per un pubblico ampio. Ci piace la formula della non-fiction, in cui la scrittura è chiara e confidenziale, e trasmette nozioni in modo digeribile. Perché alla fine ci annoiamo facilmente: se invece si adotta un approccio più semplice, colloquiale e amichevole, tutto diventa più facile da raccontare.
Discover some tips from Valentina and Elena.
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